AAA

Io credo all'uccellino batticoda:
che ci porti il buon anno.
Scorre liscio sull'umido tappeto
di bruni muschi, alla soglia del mare,
sosta un tratto a beccare, e poi di nuovo
scivola via come una spola, vola,
sparisce in cielo. Neppur ci ha guardati.
Ma è bello, affusolato, grigio e bianco:
porta, certo, il buon anno.

Diego Valeri, 1962

AAA
Un pensiero per Noel


Do not stand at my grave and weep;
I am not there. I do not sleep.
I am a thousand winds that blow.
I am the diamond glints on snow.
I am the sunlight on ripened grain.
I am the gentle autumn rain.
When you awaken in the morning's hush
I am the swift uplifting rush
Of quiet birds in circled flight.
I am the soft stars that shine at night.
Do not stand at my grave and cry;
I am not there. I did not die.


Non stare davanti alla mia tomba a piangere;
Io non sono lì. Non sto dormendo.
Io sono i mille venti che soffiano.
Io sono lo scintillio del diamante sulla neve.
Io sono la luce del sole sul grano maturo.
Io sono la pioggia gentile dell'autunno.
Quando ti svegli nel silenzio del mattino
Io sono la corsa veloce verso l'alto
Dei quieti uccelli che volano in cerchio.
Io sono le stelle morbide che brillano nella notte.
Non stare davanti alla mia tomba a piangere;
Io non sono lì. Non sono morto.

Mary Elizabeth Frye, 1932

AAA
[...] La cornacchia era nella gabbia di mezzo, un'uccelliera grande più o meno come un armadio, tra la gabbia con i due gufi e la gabbia dello smeriglio. Eccola. Faunia si sentiva già meglio.
- Prince. Ehi, bellezza -. E fece schioccare la lingua contro il palato, clic, clic, clic.
Si voltò verso la ragazza che stava dando da mangiare al serpente. Non era lì quando, in passato, Faunia era venuta a vedere la cornacchia, e molto probabilmente era nuova. O relativamente nuova. Faunia stessa, per mesi, non era andata a trovare la cornacchia, e mai da quando aveva cominciato a vedere Coleman. Era passato del tempo da quando si era messa a cercare dei sistemi per abbandonare la razza umana. Dopo la morte dei due figli non aveva più fatto visite regolari, anche se prima, in certi periodi, si fermava quattro o cinque volte la settimana. - Può venire fuori, no? Solo per un momento.
- Certo, - disse la ragazza.
- Mi piacerebbe averla sulla spalla, - disse Faunia, e si chinò per sollevare il gancio che teneva chiuso il portello di vetro della gabbia. - Oh, ciao, Prince. Oh, Prince. Sei in piena forma.
Quando lo sportello si aprì, la cornacchia saltò dal trespolo sullo sportello e vi rimase appollaiata, voltando la testa di qua e di là.
Faunia scoppiò in una risatina. - Che faccia! Mi sta studiando, - gridò alla ragazza. - Guarda, - disse alla cornacchia, e le mostrò l'anello con l'opale, il regalo di Coleman. L'anello che le aveva regalato, in macchina, quel sabato d'agosto in cui erano andati a Tanglewood. - Guarda. Vieni. Vieni qui, - sussurrò all'uccello, offrendogli la spalla.
- Non è in vena, - disse la ragazza.
- Dolcezza? - tubò Faunia. - Vieni. Su. Sono Faunia. La tua amica. Da brava. Coraggio. - Ma l'uccello non si mosse. [...]
- Adoro le cornacchie. E' il mio uccello preferito. E i corvi. Una volta abitavo a Seeley Falls, quindi so tutto di Prince. L'ho conosciuta quando era là che ciondolava intorno al negozio di Higginson. Rubava le mollette delle bambine. Si gettava su ogni cosa che fosse luccicante e colorata. Era famosa per questo. C'erano dei ritagli di giornale su di lei. Su di lei e sulle persone che l'avevano allevata dopo che il suo nido era stato distrutto, e su come passeggiava davanti al negozio dandosi un sacco di arie. Erano puntati proprio lì, - disse, voltandosi per indicare un tabellone di fianco all'ingresso della stanza. - Dove sono i ritagli?
- Li ha strappati.
Faunia scoppiò a ridere, molto più forte di prima, questa volta. - Li ha strappati lei?
- Col becco. Li ha stracciati.
- Non voleva che tutti conoscessero le sue origini! Si vergognava delle sue origini! Prince! - gridò, girandosi verso la gabbia col portello ancora spalancato. - Ti vergogni del tuo passato equivoco? Oh, poverina. Sei una brava cornacchia. [...]
Alzò la mano, la mano con l'anello, e disse all'uccello: - Ecco. Ecco. Guarda cosa ti ho portato per giocare -. Si tolse l'anello e glielo tenne davanti al becco per farglielo vedere da vicino. - Gli piace il mio anello con l'opale.
- Di solito gli diamo delle chiavi per giocare.
- Bè, ha fatto strada. Non è così per tutti? Ecco. Trecento dollari, - disse Faunia. - Su, gioca con questo. Non riconosci un anello di valore quando qualcuno te lo offre?
- Lo prenderà, - disse la ragazza. - Se lo porterà nella gabbia. Sembra un ratto boschereccio. Prende il cibo e lo ficca nelle crepe del muro della gabbia e ce lo pesta dentro col becco.
Adesso la cornacchia aveva afferrato strettamente l'anello col becco e muoveva di scatto la testa di qua e di là. Poi l'anello tintinnò sul pavimento. L'uccello l'aveva lasciato cadere. [...] Ancora una volta Faunia recuperò l'anello e gliel'offrì, e ancora una volta la cornacchia lo prese e lo lasciò cadere.
- Oh, Prince... Questa volta l'hai fatto apposta. E' diventato un gioco, eh?
Cra. Cra. Cra. Cra. L'uccello proruppe nel suo strano verso, per la donna un'esplosione in pieno viso.
Allora Faunia tese la mano e cominciò a carezzargli la testa,poi, molto lentamente, a scendere con la mano lungo il corpo partendo dalla testa, e la cornacchia glielo permise.
- Oh, Prince. Oh, come sei lucido e splendente! Mi sta cantando qualcosa a bocca chiusa, - disse, e la sua voce era estatica, come se Faunia avesse finalmente scoperto il significato di ogni cosa. [...]
E ricordava con quanto impegno aveva cercato di morire. [...]
- No, non l'ho fatto, Prince. Neanche questo ha funzionato. E così - sussurrò all'uccello, le cui lustre penne nere erano calde e lisce sotto la sua mano come nessun'altra cosa Faunia avesse carezzato, - eccoci arrivati a questo punto. Una cornacchia che in realtà non sa come fare per essere una cornacchia, una donna che non sa come fare per essere una donna. Siamo fatte l'una per l'altra. Sposami. Tu sei il mio destino, ridicolo uccello - . Poi fece un passo indietro e s'inchinò. - Addio, mio Principe. [...] Aveva lasciato l'anello a Prince. Il regalo di Coleman. Mentre la ragazza non guardava, lo aveva nascosto nella gabbia. Fidanzata con una cornacchia. Ecco quello che ci vuole. [...]

Philip Roth
La macchia umana (Einaudi, 2001)

AAA
[...] Siamo rimaste sole noi due, io e Femmina Umana. Io mi sono ritirata in un angolino fra il divano e un mobile scuro. Siccome nel codice genetico Esterházy vengono al primo posto l’eleganza e il contegno, non posso che comportarmi come la mia natura mi comanda. Sono sdraiata a terra, con le zampe composte sul davanti e il musetto appoggiato su quella di destra. Apparentemente tranquilla. Ma ho le orecchie schiacciate contro la testa, che per me è sempre segnale di preoccupazione e di timore, e non riesco a trattenere un lieve mugolio intermittente. Che diamine! In fondo, sono come una bambina di due anni che in pochi giorni ha perso la mamma e i fratellini, ha cambiato totalmente i luoghi della sua vita e ora s’inoltra, sola e indifesa, in un mondo sconosciuto, fra urla incomprensibili, fuochi che prima risplendono e poi si spengono e amici che prima ci sono e poi scompaiono!
Femmina Umana ora sta distesa sul divano con le gambe diritte allungate in avanti con iraconda energia e lo sguardo gelido fisso su di me. Per giunta, ora, ad aumentare il mio terrore, manda fumo dal naso e dalla bocca, aspirando uno stecchetto bianco che tiene fra due dita! Passa un tempo infinito. Poi succede qualcosa di strano. Femmina Umana ha smesso di mandar fumo dal naso e dalla bocca. Mi fissa ancora duramente, ma nei suoi occhi il grigio ferro sta tornando pervinca. Io, da parte mia, mantengo le orecchie strette alla testa e mugolo sempre più debolmente, intontita dalla paura. Poi succede qualcosa di ancor più strano. Si direbbe che, prima impercettibilmente, poi in maniera sempre più decisa, Femmina Umana stia scivolando giù dal divano. Pian piano, un trattino dietro l’altro, Femmina Umana vien giù dal divano. Che diavolo succede? Femmina Umana ora è tutta sul pavimento e, con movimenti altrettanto impercettibili, scivola lentamente verso di me. Scivola che ti scivola, è arrivata di fronte a me, esattamente alla mia altezza (che ovviamente non è tanto grande). Per farlo Femmina Umana sta lunga distesa sul pavimento, con la disinvoltura di chi non abbia fatto altro fino a quel momento. La guardo da questa distanza estremamente ravvicinata, gli occhi negli occhi: i suoi occhi sono tornati di un assoluto, limpidissimo color pervinca, e per giunta umidi, come se un po’ di brina le fosse scesa dentro dall’alto. Il mio cuore batte forte, anzi fortissimo: tum, tum, tum, tum, tum... Come vorrei che fosse vero quel che comincio a pensare che sia vero! Femmina Umana inizia a parlare. Com’è dolce ora quella voce, come mi piace! “Piccolina, ti ho spaventato! Cattiva che non sono altro! Piccolina, piccolina, piccolina!” Non resisto più: smetto di tenere le orecchie appiccicate alla testa, compio un gioco di prestigio e le faccio schizzare tutt’e due verso l’alto, muovo freneticamente il mio mozzicone di coda, balzo su di lei, le lecco impetuosamente la fronte, il naso, il mento, gli occhi pervinca. “Si, - fa lei, - si, piccolina, piccolina, piccolina...” [...]
Femmina Umana non ha la pelliccia né le tette calde né la lingua morbida e delicata di Mami: ma ha il suo calore e la sua forza e la sua dolcezza, il suo desiderio spontaneo e disinteressato di piacere e soprattutto di piacermi. Decido in un solo istante che Femmina Umana è e sarà per sempre da quel momento, la mia Mami, la mia Ma: per i baci che m’ha dato quando tutto sembrava crollarmi addosso, per l’adozione che ha fatto di me, quando sembrava che fossi destinata a diventare, come tante, una povera cagnetta solitaria, sperduta nel mondo freddo e ostile che di sicuro c’è tutto intorno, anche se finora io gli ho dato solo uno sguardo.
Sono grata a Po di avermi condotta da Ma. Ma voglio che Ma sappia che sono sua. Mi getto di nuovo su di lei, torno a leccarle la faccia, m’impadronisco della sua mano, la stringo con la mia bocca quanto posso. Se lei ha adottato me, io ho adottato lei, e con il segno dei miei piccoli denti sulla sua carne solennemente lo proclamo. Finché ci sarò il tempo (e io certo non so quanto), le resterò legata come un cucciolo, un bambino, che guarda alla fonte di tutti i suoi piaceri: il principio della madre, senza il quale nessuno può sopravvivere ed esser felice. [...]

Alberto Asor Rosa
(da “Storie di animali e altri viventi”, Einaudi, 2005)

AAA
[...] sorge davanti a Tereza un pensiero blasfemo del quale non riesce a sbarazzarsi: l’amore che la lega a Karenin è migliore di quello che esiste tra lei e Tomáš. Migliore, non più grande. Tereza non vuole incolpare né Tomáš né se stessa, non vuole sostenere che si sarebbero potuti voler bene di più. Le sembra piuttosto che la coppia umana sia creata in modo tale che l’amore dell’uomo e della donna è a priori di natura inferiore a quello che può essere (almeno nei casi migliori) l’amore tra l’uomo e il cane, questa bizzarria nella storia dell’uomo, probabilmente non prevista dal Creatore.
E’ un amore disinteressato: Tereza non vuole nulla da Karenin. Non vuole nemmeno l’amore. Non si è mai posta quelle domande che torturano le coppie umane: mi ama? ha mai amato qualcuna più di me? mi ama più di quanto lo ami io? Forse tutte queste domande rivolte all’amore, che lo misurano, lo indagano, lo esaminano, lo sottopongono ad interrogatorio, riescono anche a distruggerlo sul nascere. Forse non siamo capaci di amare proprio perché desideriamo essere amati, vale a dire vogliamo qualcosa (l’amore) dall’altro invece di avvicinarci a lui senza pretese e volere solo la sua semplice presenza.
E ancora una cosa: Tereza ha accettato Karenin così com’è, non ha voluto cambiarlo a propria immagine e somiglianza, ha accettato in partenza il suo universo di cane, non ha voluto sottrarglielo, non è stata gelosa dei suoi intrighi segreti. Lo ha allevato non per trasformarlo (come un uomo vuole trasformare la sua donna e la donna il suo uomo), ma solo per insegnargli una lingua elementare che avrebbe permesso loro di capirsi e di vivere insieme.
E ancora: il suo amore per il cane è un amore volontario, nessuno ve la obbligava. [...] Ma soprattutto: nessun essere umano può portare a un altro il dono dell’idillio. L’unico a poterlo fare è l’animale perché lui non è stato cacciato dal Paradiso. L’amore tra l’uomo e il cane è idilliaco. In esso non ci sono né conflitti né scene strazianti, in esso non c’ evoluzione. Karenin circondava Tereza e Tomáš con la propria vita fondata sulla ripetizione e si attendeva da loro la stessa cosa.
Se Karenin fosse stato un essere umano e non un cane, di sicuro già da tempo avrebbe detto a Tereza: “Senti, non mi va più di portare in bocca ogni giorno un panino. Non puoi inventare qualcosa di nuovo?”. In questa frase è contenuta tutta la condanna dell’uomo. Il tempo umano non ruota in cerchio ma avanza veloce in linea retta. E’ per questo che l’uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione.[...]

Milan Kundera
(da “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, Adelphi, 1984)

AAA
[...] L’altro anno una passera scopaiola invece di seguire le sue compagne verso la Spagna si era fermata attorno a casa: forse era ammalata, oppure aveva qualche pallino di piombo nel corpo perché volava malamente. La sorprendevo ogni tanto sulla catasta della legna o sulla scala a pioli o sotto il portichetto delle galline; ed era solitaria perché disdegnava la compagnia dei passeri comuni e degli altri vicini: scriccioli e cince. Ma una cosa mi era singolare: come mai il gatto randagio che girava nei dintorni, o la donnola, non l’avessero ancora presa e mangiata. E anche osservai che non andava a dormire nelle cassette nido delle coderosse appese alte attorno al muro e sugli alberi, perché tutte avevano intatte sull’apertura le tele dei ragni. Venne la neve, tanta, e freddo; ma sempre la piccola creatura mi capitava di vederla attorno casa e mi sorprendeva la sua persistenza. Una mattina l’arcano mi venne svelato.
Da ventiquattro ore il mulino del cielo non smetteva di macinare neve, il vento che veniva dall’est era lunghissimo e non se ne prevedeva la coda; quel giorno, intabarrato come nella ritirata di Russia, portai da mangiare al mio cane e alle galline.
Per il vento e la neve che turbinavano e per lo squassare degli alberi, mi ero avvicinato al canile senza che Cimbro se ne accorgesse e da sotto le ciglia innevate potei vedere che lui, tra le zampe e il petto, si teneva al caldo la passera scopaiola che, sorpresa dalla mia apparizione, mi fissava immobile. Poi volò fuori sfiorandomi il viso. Cimbro, cane da caccia selvatico e appassionato come nessun altro, mosse appena la coda come volesse scusarsi per questa debolezza sentimentale.[...]

Mario Rigoni Stern
(da “Il libro degli animali”, Einaudi, 2001)

AAA
[...]
Il loro primo pellegrinaggio fu a quell’albero che in un’incisione profonda nella scorza, già tanto vecchia e deformata che non pareva più opera di mano umana, portava scritto a grosse lettere: Cosimo, Viola, e – più sotto – Ottimo Massimo.
- Quassù? Chi è stato? Quando?
- Io: allora.
Viola era commossa.
- E questo cosa vuol dire? – e indicava le parole: Ottimo Massimo.
- Il mio cane. Cioè il tuo. Il bassotto.
- Turcaret?
- Ottimo Massimo, io l’ho chiamato così.
- Turcaret! Quando avevo pianto, quando partendo m’ero accorta che non l’avevano caricato in carrozza... Oh, di non vedere più te non m’importava, ma ero disperata di non avere più il bassotto!
- Se non era per lui non t’avrei ritrovata! E’ lui che ha fiutato nel vento che eri vicina, e non ha avuto pace finché non t’ha cercata...
- L’ho riconosciuto subito, appena l’ho visto arrivare al padiglione, tutto trafelato... Gli altri dicevano: “E questo donde salta fuori?” Io mi son chinata a osservarlo, il colore, le macchie. “Ma questo è Turcaret! Il bassotto che avevo da bambina a Ombrosa!”.
Cosimo rideva. Lei improvvisamente torse il naso. – Ottimo Massimo... Che brutto nome! Dove vai a pescare dei nomi così brutti? – E Cosimo s’oscurò subito in volto.
Per Ottimo Massimo ora invece la felicità non aveva ombre. Il suo vecchio cuore di cane diviso tra due padroni aveva finalmente pace, dopo aver faticato giorni e giorni per attirare la Marchesa verso i confini della bandita, al frassino dove era appostato Cosimo. L’aveva tirata per la sottana, o le era fuggito portando via un oggetto, correndo verso il prato per farsi inseguire, e lei: - Ma cosa vuoi. Dove mi trascini? Turcaret! Smettila! Ma che cane dispettoso ho ritrovato! – Ma già la vista del bassotto aveva smosso nella sua memoria i ricordi dell’infanzia, la nostalgia d’Ombrosa. [...]

Italo Calvino
(da “Il barone rampante”, Einaudi, 1957)