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[...] Anche Cosimo cominciava ad accorgersi del tempo che passava, e il segno era il bassotto Ottimo Massimo che stava diventando vecchio e non aveva più voglia di unirsi alle mute dei segugi dietro alle volpi né tentava più assurdi amori con cagne alane o mastine. Era sempre accucciato, come se per la pochissima distanza che separava la sua pancia da terra quand’era in piedi, non valesse la pena di tenersi ritto. E lì disteso quant’era lungo, dalla coda al muso, ai piedi dell’albero su cui era Cosimo, alzava uno sguardo stanco verso il padrone e scodinzolava appena. Cosimo si faceva scontento: il senso del trascorrere del tempo gli comunicava una specie d’insoddisfazione della sua vita, del su e giù sempre tra quei quattro stecchi, E nulla gli dava più una contentezza piena, né la caccia, né i fugaci amori, né i libri. Non sapeva neanche lui cosa voleva: preso dalle sue furie, s’arrampicava rapidissimo sulle vette più tenere e fragili come cercasse altri alberi che crescessero sulla cima degli alberi per salire anche su quelli.
Un giorno Ottimo Massimo era inquieto. Pareva fiutasse un vento di primavera. Alzava il muso, annusava, si ributtava giù. Due o tre volte s’alzò, si mosse intorno, si risdraiò. Tutt’a un tratto prese la corsa. Trotterellava piano, ormai, e ogni tanto si fermava a riprender fiato. Cosimo di sui rami lo seguì.
Ottimo Massimo prese la via del bosco. Pareva che avesse in mente una direzione molto precisa, perché anche se ogni tanto si fermava, pisciacchiava, si riposava a lingua fuori guardando il padrone, presto si scrollava e riprendeva la strada senza incertezze. Stava così andando in paraggi poco frequentati da Cosimo, anzi quasi sconosciuti, perché era verso la bandita di caccia del Duca Tolemaico. Il Duca Tolemaico era vecchio cadente e certo non andava a caccia da chissà quanto tempo. Ma nella sua bandita nessun bracconiere poteva metter piede perché i guardiacaccia erano molti e sempre vigili e Cosimo che ci aveva già avuto da dire preferiva tenersi al largo. Ora Ottimo Massimo e Cosimo s’addentravano nella bandita del Principe Tolemaico, ma né l’uno né l’altro pensavano a snidarne la pregiata selvaggina: il bassotto trotterellava seguendo un suo segreto richiamo e il Barone era preso da un’impaziente curiosità di scoprire dove mai andava il cane.
Così il bassotto giunse a un punto in cui la foresta finiva e c’era un prato. Due leoni di pietra seduti su pilastri reggevano uno stemma. Di qua forse doveva cominciare un parco, un giardino, una parte più privata della tenuta del Tolemaico: ma non c’erano che quei due leoni di pietra, e al di là il prato, un prato immenso, di corta erba verde, di cui solo in lontananza di vedeva il termine, uno sfondo di querce nere. Il cielo dietro aveva una lieve patina di nuvole. Non un uccello vi cantava.
Per Cosimo, quel prato era una vista che riempiva di sgomento. Vissuto sempre nel folto della vegetazione d’Ombrosa, sicuro di poter raggiungere ogni luogo attraverso le sue vie, al Barone bastava aver davanti una distesa sgombra, impercorribile, nuda sotto il cielo, per provare un senso di vertigine.
Ottimo Massimo si slanciò nel prato e , come fosse ritornato giovane, correva a gran carriera. Dal frassino dov’era appollaiato, Cosimo prese a fischiare, a chiamarlo: - Qui, torna qui, Ottimo Massimo! Dove vai? – ma il cane non gli ubbidiva, non si voltava nemmeno: correva correva per il prato, finché non si vide che una virgola lontana. La sua coda, e anche quella sparì.
Cosimo sul frassino si torceva le mani. A fughe e ad assenze del bassotto era pur abituato, ma ora Ottimo Massimo spariva in questo prato invalicabile, e la sua fuga diventava tutt’uno con l’angoscia provata poc’anzi, e la caricava d’una indeterminata attesa, d’un aspettarsi qualcosa di là di quel prato.[...]


Italo Calvino
(da “Il barone rampante”, Einaudi, 1957)

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