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[...] Shōzō ricordava anche lo sguardo dolce e sofferente di Lily quando aveva partorito per la prima volta. Erano passati circa sei mesi da quando era arrivata ad Ashiya. Una mattina, colta dalle doglie, lo inseguì miagolando rumorosamente. Shōzō aveva preparato in fondo all’armadio a muro una cassetta vuota con dentro un vecchio cuscino. Quando la portava dentro, la gatta vi rimaneva qualche momento, ma subito veniva fuori aprendo la bocca e miagolando, e gli correva dietro di nuovo. Non l’aveva mai sentita miagolare in quel modo: ilsuo “mia-a-a” conteneva qualcosa di misterioso e diverso dal solito. A Shōzō parve che dicesse: “Oh, cosa devo fare? Mi sento strana all’improvviso. Ho paura che mi stia succedendo qualcosa di nuovo. Non ho mai avuto una sensazione come questa. Oh, cosa pensi che sia? Non ci sarà nulla di preoccupante?”
E Shōzō le disse accarezzandole la testa: “Non devi preoccuparti. Tra poco diventerai madre...”
Allora la gatta metteva le due zampine anteriori sul ginocchio di Shōzō, e con un’aria implorante ripeteva ancora il suo “mia-a-a”. E come sforzandosi intensamente di capire le parole di lui, sgranava gli occhi quasi smaniando. Shōzō la riportava all’armadio e la metteva nella cassetta cercando di convincerla: “Capisci? Sta’ ferma lì. Non devi venir fuori. Hai capito? Va bene?”
Ma quando lui faceva per alzarsi chiudendo l’anta dell’armadio, la gatta miagolava triste: “Mia-a-a” come volesse dire: “Aspetta per favore. Stai qui con me.”
Shōzō si commuoveva e lasciava socchiusa la porta. La gatta sporgeva la testa dalla cassetta, in fondo a bauli e pacchi accatastati nell’armadio, e lo guardava ancora miagolando. Che sguardo affettuoso, si diceva Shōzō, non sembra nemmeno una bestia! La gatta aveva un’aria quasi misteriosa: gli occhi che brillavano in fondo all’armadio non erano più quelli di una gattina birichina; avevano da poco acquistato una luce femminile e matura, erano pieni di civetteria, di fascino e di tristezza.[...]

Jun’ichirō Tanizaki
(da “La gatta”, Bompiani, 1988)

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